Recensione Elegia Americana film Netflix con Amy Adams

Recensione Elegia Americana film Netflix con Amy Adams

USA, 2020
REGIA: RON HOWARD
DURATA: 115 min.
CAST: AMY ADAMS, GLEEN CLOSE, GABRIEL BASSO, HALEY BENNETT, FREIDA PINTO, BO HOPKINS, OWEN ASZTALOS.

IL SOGNO AMERICANO DAL ROMANZO AL FILM

Il nuovo film di Ron Howard “Elegia Americana” è uno dei molti titoli della stagione ad approdare direttamente su Netflix vista la nuova chiusura delle sale cinematografiche.

Tratto dal romanzo omonimo di J.D. Vance, autobiografia best-seller del 2016, racconta del riscatto di un giovane uomo cresciuto nella zona rurale degli Appalachi (precisamente in Kentucky) in un contesto famigliare fortemente disfunzionale, che riesce a entrare nella prestigiosa Università di Legge di Yale avanzando nella scala sociale grazie al suo impegno e all’appoggio fondamentale della nonna materna.

Una variante classica del cosiddetto American Dream che tanto piacque ai lettori statunitensi e che a suo modo si era distinta per ritrarre uno spaccato sociale peculiare, quello dell’elettorato medio di Donald Trump (divenuto Presidente proprio quando il romanzo uscì): il termine “hillbilly” del titolo originale sta a indicare – spesso in modo dispregiativo – proprio la popolazione rurale che vive nelle aree montuose degli Appalachi, frequente bersaglio di stereotipi quali la bassa istruzione, le condizioni di indigenza e le strette vedute.

RON HOWARD E IL RITORNO A UNA STORIA INTIMA

La storia di J.D. viene narrata su due binari paralleli: a 14 anni, sballottato da una casa all’altra da una madre single tossicodipendente e violenta di nome Beverly, e una volta adulto in procinto di laurearsi a Yale, costretto a tornare nella cittadina di provenienza dopo l’ennesimo caso di overdose della madre, per cercare di aiutarla a disintossicarsi. Un’occasione per fare i conti con i propri traumi infantili.

In tutto ciò fondamentale è la figura della nonna materna Bonnie detta “Mamaw”, ruvida ma protettiva, intenzionata a rendere il futuro del nipote migliore del suo presente squallido.

Grazie a lei J.D. capirà l’importanza di un’istruzione al fine di trovare il proprio posto nel mondo, riuscendo a scappare da quella provincia soffocante e priva di prospettive per affermarsi come persona indipendente e stimata.

Sulla carta non poteva esserci regista migliore di Ron Howard per portare sul grande schermo una storia del genere: dopo essersi dedicato alle gesta di Robert Langdon con la trilogia tratta dai romanzi di Dan Brown (“Il Codice da Vinci”, “Angeli e Demoni” e “Inferno”) e la parentesi nell’universo di Star Wars con lo spin-off (non proprio riuscito) dedicato a Han Solo, Howard aveva qui l’occasione di tornare a un racconto più intimista e focalizzato sulle psicologie dei protagonisti, di solito a lui maggiormente congeniale (vedi i solidi drammi da lui diretti come “A Beautiful Mind”, “Rush” e “Frost/Nixon”).

COSA FUNZIONA E COSA NO

Trainato da due nomi eccellenti come Amy Adams e Glenn Close nel cast (nei panni rispettivamente della madre e della nonna di J.D.) “Elegia Americana” aveva tutte le carte in regole per essere uno dei migliori film dell’anno e ambire agli Oscar, di cui si vociferava già per le sue protagoniste, tra l’altro famose per essere due delle attrici più nominate della storia dell’Academy ancora senza una statuetta sul caminetto di casa (la Close a quota 7 candidature, la Adams a 6).

Caratterizzato da un racconto composto da vari flashback e salti temporali, il film soffre di una regia blanda e superficiale. Il ritmo si inceppa verso metà e la sensazione di già visto fa presto capolino.

Elegia Americana

I personaggi sono piuttosto ben caratterizzati, anzi potremmo dire che sono quasi delle caricature: la Beverly di Amy Adams è una donna diventata madre troppo presto, vittima di un’infanzia traumatica, insoddisfatta dalla vita e dalle molteplici relazioni, incapace di assumersi alcuna responsabilità e preda di demoni interiori e dipendenze da varie droghe, tra cui l’eroina; la nonna è anch’essa una sopravvissuta, sposata a un marito violento ma determinata a non ripetere gli stessi errori anche con i nipoti, dal cuore grande ma trincerata dietro a un’indole arcigna e spigolosa.

Le prove attoriali sono uno dei punti positivi della pellicola, nonostante si respiri spesso il fenomeno del cosiddetto “over acting”, una recitazione sopra le righe, quasi teatrale, che sovrasta tutto e rende quasi fastidiosi i personaggi per cui dovremmo empatizzare.

Amy Adams, di solito brava nelle sfumature e nel lavoro di sottrazione, ci restituisce un personaggio disperato ma in realtà senza le giuste motivazioni che spingano la sua Beverly a comportarsi in un certo modo (esemplare ad esempio la scena in macchina col figlio di ritorno da un negozio di figurine), mentre Glenn Close, che potrebbe benissimo recitare la lista della spesa ed essere eccellente, viene camuffata da un trucco impietoso e da un accento ingombrante che sembrano gridare “Datemi un Oscar!” per quanto disperatamente ci provi.

J.D. d’altro canto risulta più a fuoco, interpretato dall’esordiente Owen Asztalos quando ha 14 anni e da Gabriel Basso durante i tempi attuali, entrambi efficaci nel ritrarre un ragazzo in bilico tra un destino apparentemente già scritto fatto di disagio e scelte sbagliate e l’opportunità per diventare qualcuno e costruire qualcosa di importante.

Oltre alla regia piatta, le pecche più evidenti sono imputabili soprattutto allo script, non abbastanza accurato o rispettoso dell’intelligenza degli spettatori, che non cerca neanche per un attimo di rendere giustizia ai suoi personaggi dipinti in modo banale e inconsistente, quando dovrebbe invece farci capire le loro scelte, l’origine del disagio di quella provincia americana e di quel segmento di popolazione che l’autore voleva in qualche modo redimere ma che restano purtroppo legati a un pericoloso stereotipo.

VALE LA PENA VEDERLO?

Stroncato da molti critici statunitensi, forse anche per il paragone con la fonte letteraria da cui è tratto, “Elegia Americana” non è sicuramente il peggiore film dell’anno come definito da molti, ma paga lo scotto di avere dalla sua parte nomi altisonanti nel cast e dietro la macchina da presa, ragione per cui ci saremmo dovuti aspettare certamente qualcosa di meglio. A volte un’operazione riuscita a metà fa storcere il naso più di una totalmente fallimentare.

In mani più sensibili e con una cura più approfondita allo spaccato sociale che intende rappresentare il film sarebbe stato un piccolo gioiello, nonostante parli di temi già visti. In definitiva risulta invece mediocre e monotono, zeppo di espedienti narrativi strappalacrime ma che paradossalmente faticano a emozionare.

Consigliato soprattutto per le performance da parte del cast e per chi è interessato a una diapositiva, sebbene sbiadita, delle contraddizioni della società statunitense a cavallo tra il ventesimo e il ventunesimo secolo.

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