Recensione The lost Daughter: il film di Maggie Gyllenhaal

Recensione The lost Daughter: il film di Maggie Gyllenhaal

The Lost Daughter segna il debutto alla regia di Maggie Gyllenhaal ed è una storia complessa e nascosta che si svela a strati.

Il film, tratto dal romanzo La figlia oscura (2006) di Elena Ferrante, è stato presentato in anteprima mondiale al festival di Venezia 78 dove la regista ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura.

Trama The lost Daughter

Leda Caruso (Olivia Colman) è una professoressa di letteratura comparata a Cambridge. Con entrambe le figlie grandi e sistemate la donna è ormai indipendente e parte per una vacanza in Grecia. Ha riempito i bagagli di libri, scusandosi per tutto il peso extra con il custode, Lyle (Ed Harris), che la accoglie nella proprietà che ha affittato. Un gentile studente irlandese di nome Will (Paul Mescal), che lavora sull’isola per l’estate e con il quale la protagonista instaura un bel rapporto, la sistema sulla spiaggia.

Il suo idillio è breve poichè viene interrotto da una rumorosa famiglia presente sulla spiaggia. Infastidita dall’intrusione, è attratta dalla malinconica Nina (Dakota Johnson) e dalla figlia di lei, Elena. Attraverso la ragazza, Leda inizia a rievocare la travagliata storia della sua maternità, spinta dallo stesso senso di angoscia che proietta sulla donna. Quando un incidente in spiaggia consente alla protagonista di salvare Elena, che si è allontanata, viene accolta con entusiasmo dalla famiglia che in precedenza l’aveva umiliata (e che sono potenzialmente responsabili di averla ferita dopo averli incontrati per la prima volta). Come una sorta di vendetta privata, ma con potenti inneschi per il suo passato, coglie l’occasione per rubare la bambola preferita della piccola e, attraverso illuminanti flashback, si arriva alla comprensione del comportamento di Leda.

Madri parallele

“L’attenzione è la forma più pura di ospitalità”, è una citazione di Simone Weil utilizzata nel debutto alla regia di Maggie Gyllenhaal, The Lost Daughter, una misteriosa storia di dolore materno adattata dal romanzo La figlia oscura di Elena Ferrante.

La citazione è uno dei numerosi tocchi di Gyllenhaal che consente di comprendere la protagonista del libro costruita solo attraverso una ricca interiorità. Il modo in cui l’affermazione di Weil risuona rispetto al racconto di questa madre infelice è solo un dettaglio di interpretazione, e come l’attenzione può deformare l’ospitalità in un’ossessione tossica è un altro. Strana e sempre più inquietante, Olivia Colman incarna perfettamente Leda, una donna che durante una vacanza sta vivendo un percorso di riflessione sulla sua vita che apre a tensioni e traumi irrisolti.

Il ritratto di una donna con sentimenti contrastanti

Si diceva nel capitoletto sulla trama che Leda decide di nascondere la bambola di Elena in casa  per motivi apparentemente illogici; con il passare dei giorni la bambina non riesce a superare la perdita, capovolgendo la vita di tutti mentre la ricerca del pupazzo continua.

I giorni passano, Nina e la Caruso si avvicinano, e quest’ultima rivela traumi privati che ha tenuto vicino a se stessa.
Con i vari spostamenti della protagonista nell’isola greca di Kypoeli, Gyllenhaal dipinge l’odio verso se stessa di Leda in termini più universali, allineando il comportamento caotico e sconsiderato del clan adiacente con i ricordi della disperazione da cui è fuggita a Leeds.

La regista riesce a trasmettere la caratterizzazione evasiva con l’aiuto di flashback pertinenti, con Jessie Buckley che interpreta la Caruso come una giovane madre il cui distacco emotivo dalle sue due giovani figlie dovuto ad una relazione extraconiugale catalizzante per lei (con il partner di Gyllenhaal, Peter Sarsgaard che interpreta un accademico affascinante) si traduce in un abbandono necessario ma dannoso. L’argomento in sé, l’idea di una madre che disprezza o lascia i suoi figli, rimane un argomento tabù, la cui esplorazione è sempre in bilico tra la dolcezza o la violenza.

Il ritratto che viene offerto è quello di una donna pungente e quasi inavvicinabile, che odia una parte di sé per la realtà dei suoi sentimenti e allo stesso tempo sembra provare una sorta di piacere in questo mix di dolore e disagio.

È chiaro che si relaziona da vicino a Nina (una Dakota Johnson dai capelli corvini, scelta attoriale che si rivela ottima), da qui il suo bisogno di punire anche la ragazza e, di contro, l’odioso clan che la accompagna.

Un nodo di ansie, misteri e ambiguità

Colman trasmette sapientemente i complessi incroci delle azioni di Leda, che fuori da quel contesto specifico sembrano senza senso. Condensate in una manciata di interazioni, la sua forza e le sue insicurezze rendono l’esperienza del film estenuante grazie all’inflessibile ansia riguardo alla bambola. Di fronte allo schermo troviamo la protagonista, dall’inizio alla fine, così incline a fare la cosa giusta e allo stesso tempo a prendere decisioni terribili e potenzialmente pericolose.
The Lost Daughter è un nodo di ambiguità, misteri e ansie. Il suo personaggio centrale vuole definire le sue battaglie, esercitare la sua volontà, prendere le distanze dall’educazione classica ed espiare i sensi di colpa passati e presenti che non potrà mai estinguere davvero. Come il cesto di frutta che accoglie Leda nella casa greca, metafora che chiarisce come basti capovolgere una situazione per vedere la parte guasta che sta per consumarla.

L’importanza della banalità

Gyllenhaal crea alcuni momenti inizialmente banali ma sempre più minacciosi: Dagmara Dominczyk, nei panni della cognata di Nina, rende un’amabile conversazione tra vicini di ombrelloni un presagio di qualcosa di sinistro che potrebbe accadere; Ed Harris, manager di proprietà espatriate, non si capisce quanto sia in intenzioni amichevoli con la nuova inquilina; il ritorno a casa dalla spiaggia di Leda è segnato in un paio di volte da pigne che misteriosamente colpiscono la donna.

Due sequenze in particolare esplicitano come i sentimenti non detti diventino i più inquietanti. In primis nella scena con Alba Rohrwacher dove interpreta un’autostoppista gentile ed empatica e poi durante la confessione di Leda a Nina.

Le profondità si rivelano tra le righe, e un quartetto di attori in entrambe le scene infonde una realtà devastante per i personaggi principali.

Conclusioni finali

Adattare Elena Ferrante per un debutto è sicuramente una scommessa, Gyllenhaal ha messo insieme un cast e una troupe esemplari, guidati dalla straordinaria direttrice della fotografia, Hélène Louvart, che tende a chiuderci fuori dall’ambiente di evasione per concentrarsi strettamente sui volti delle donne. Il compositore Dickon Hinchliffe aggiunge un senso di minaccia, forse non a caso, più chiaro che nella prosa di Ferrante.

The Lost Daughter è un ritratto potente e coraggioso della maternità e della femminilità da una prospettiva che si concentra più sull’amore di una donna per se stessa che sull’amore per i figli.

La capacità di Gyllenhaal sta nel rendere effettivamente riconoscibili quelli che potrebbero essere visti come temi controversi e inaspettati dell’amore per se stessi. La regista non mostra Leda come un individuo assolutamente imperfetto ma capovolge questa idea, mostrando che invece di essere “difettosa” in base agli standard del mondo, la donna ha effettivamente trovato la propria liberazione dalle norme di genere. Invece di sorvolare sulle cose difficili, Gyllenhaal si sofferma su queste scene difficili, evidenziando i momenti che hanno portato la protagonista in questa posizione, compresi i suoi desideri più intimi e reconditi.

Trailer The Lost Daughter

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