Recensione Don’t Worry Darling: il nuovo film di Olivia Wilde

Recensione Don’t Worry Darling: il nuovo film di Olivia Wilde

Il secondo lungometraggio di Olivia Wilde, presentato in anteprima mondiale all’ultimo festival di Venezia, ha fatto parlare più dei rapporti tra i membri del cast (in particolare il triangolo Olivia Wilde, Florence Pugh e Harry Styles) e delle dinamiche litigiose attorno alla prima veneziana che della storia in sé.

Lo stupore mediatico creatosi attorno a Don’t Worry Darling sembra aver fatto più notizia del film stesso, a partire dalla sostituzione di Shia Labeouf con Styles fino agli intricati avvicendamenti che hanno tenuto banco sin dalle prime testimonianze dal set.

Nonostante l’attesa fosse tanta, il racconto non è pienamente riuscito: non si confronta fino in fondo con le idee che sembra proporre nelle sue premesse, anche se a risultato finito, non tutto il lavoro è da buttare.

Il lungometraggio è ora disponibile in digitale su CHILI.

Trama di Don’t Worry Darling

Florence Pugh interpreta Alice, una casalinga residente a Victory, idilliaco sobborgo che sembra Palm Springs, dove tutti bevono di notte e Alice e Jack (Harry Styles) sembrano vivere in una perenne luna di miele, sempre in preda alla passione.

Le auto e l’abbigliamento risalgono direttamente agli anni ’50, l’arredamento è all’avanguardia, così come i ruoli di genere e le etichette rispecchiano bene i tempi narrati.

In questa comunità in espansione di 72 residenti gli uomini svolgono lavori top secret nel deserto, guidano per andare al lavoro direttamente su strade non asfaltate fino in cima a una collina misteriosa. 

E se una delle mogli chiede cosa fanno, un semplice “non capiresti” del marito chiude ogni conversazione a riguardo.

Frank (Chris Pine) è l’architetto della comunità. Conduce anche un programma radiofonico di un’ora che viene trasmesso in ogni casa, specificamente rivolto alle mogli che risiedono a Victory. Le donne si adoperano in maniacali pulizie di casa, fanno shopping e aperitivi, cucinano cene perfette. Gridano semplicemente “Lo prendo!” quando viene presentato un oggetto in uno show room e viene addebitato su un conto aziendale.

La stessa Wilde interpreta la migliore amica di Pugh a Victory, il cui marito (Nick Kroll) ha appena ricevuto una promozione con un anello benedetto da Pine. E Gemma Chan appare in scena come Shelley, la moglie solidale di Frank, istruttrice di ballo per le casalinghe, insegna loro non solo a danzare sulle punte ma anche come mantenere una certa condotta comportamentale.

Ovviamente a Victory niente è come sembra. Una volta che Alice vede (o forse ha allucinazioni) un incidente aereo in montagna, seguito da un suicidio in cima a una delle belle case della comunità, inizia a fare domande. E la personalità di Pine diventa fondamentale quando Pugh comincia realmente a mettere tutto in discussione.

I punti di forza della storia

Wilde dirige con sicurezza il suo thriller di fantascienza grammaticalmente scorretto. L’aumento nella produzione rispetto al suo lavoro d’esordio, Booksmart, è facilmente ravvisabile e il film è trionfante in aree come la direzione artistica (Katie Byron), il design dei costumi (Arianne Phillips, candidata all’Oscar per C’era una volta a… Hollywood) e la colonna sonora di John Powell.

Le musiche raccontano a tutto tondo gli anni ’50 e giocano un elemento accattivante con brani famosi come Oogum Boobum di Brenton Wood, Don’t Worry Baby dei Beach Boys, Bang Bang di Nancy Sinatra, Suspicious Minds di Elvis Presley.

Il direttore della fotografia Matthew Libatique (Black Swan, A Star is Born) rende pop, colorato e a tratti visivamente inquietante il racconto, con faville scintillanti, talvolta eccessive.

Per quanto riguarda la regia, le ambizioni di Wilde sono cresciute rispetto alla sua prima fatica e infatti assistiamo a scene oniriche, set che diventano labirinti, inseguimenti in macchina in cui ogni piano diventa più complesso; la regista dimostra in questo di essere all’altezza del ruolo giocando con simmetrie, creando immagini che rimangono.

La sceneggiatura di Don’t Worry Darling

Il problema di Don’t Worry Darling è la sceneggiatura scritta da Katie Silberman (che ha anche sceneggiato il brillante Booksmart). La storia è una fusione di tutta una serie di influenze. The Stepford Wives, The Truman Show, Black Swan, Black Mirror e persino The Thirteenth Floor, l’era di Matrix, saltano in primo piano, con la stessa Wilde incapace di appianare le molte incongruenze, i buchi della trama e l’aria generale di incertezza che emergono a seguito del suo montaggio trama a puzzle.
La sceneggiatura lancia idee allo spettatore all’ingrosso, aspettandosi che non le metta in discussione. Ma mettere in discussione è tutto ciò che di solito il pubblico fa appena iniziano i titoli di coda. Perché i gusci d’uovo erano effettivamente vuoti, per esempio? Perché Shelley sembra prendere in mano la situazione svelando qualcosa di fondamentale e poi il suo personaggio non si vede più?

Don’t Worry Darling in realtà non ha una risposta a quasi nulla, la regista sembra sperare che lo spettatore non ricordi tutti i tasselli aperti cercando di distrarlo con l’estetica luccicante delle immagini astutamente scelte.

Silberman e Wilde hanno ottime idee per dimostrare il fragile stato mentale dell’Alice di Florence Pugh, ma il film perde rapidamente la logica e quindi tutto ciò che ne ricaviamo sono idee senza il coraggio della regista di impegnarsi in qualcosa di più grande, di più ampie scelte narrative.

Se la prima parte del racconto getta una serie di idee, spunti, con una storia che se pur non nuova ha un suo senso e incuriosisce chi la guarda, la seconda non regge il ritmo, non chiude alcun enigma aperto nel primo tempo, parentesi interessanti che erano state aperte non vengono chiuse e questo toglie valore anche al prodotto che da interessante thriller psicologico diventa un giallo irrisolto, privo di spiegazioni che sarebbero state necessarie.

Il ruolo di Florence Pugh e del resto del cast

Cast don't worry darling

Pugh è la colla che mantiene Don’t Worry Darling in movimento attraverso il suo mondo di domesticità patriarcale degli anni ’50. L’attrice inglese carica su di sé l’intera responsabilità del film, diventandone la forza trainante. La giovane attrice inglese ormai lo ha dimostrato più volte, non solo buca lo schermo, ma possiede un carisma in grado di dare maggior fascino ad ogni progetto in cui è coinvolta. Non si può dire lo stesso di Harry Styles (che avevamo visto cinematograficamente fino a questo momento solo in Dunkirk di Christopher Nolan, con un piccolo ruolo in un cast corale). Il cantante inglese dà un ritratto del suo personaggio che non resta e che rimane costantemente in ombra, non solo rispetto a Pugh ma anche a confronto col resto del cast. I ruoli di supporto interpretati da Chan, Pine e Wilde sono ben congegnati e rappresentati ma non ne viene sviluppato il potenziale narrativo.

Conclusioni finali

Una nota positiva è rappresentato dal fatto che, in un tentativo di femminismo forse un po’ forzato, viene ribaltata la visione patriarcale delle donne degli anni ’50, viste solo come casalinghe perfette. Nel soggetto di Silberman gli uomini risultano incapaci di vedere nelle loro mogli talenti o comprenderne il desiderio di indipendenza, ma è grazie alle donne che di fatto i misteri della trama cominciano ad essere smossi.

Il problema principale del film è che finisce dove sta per cominciare, nella scena conclusiva ci si aspettano la spiegazione e il colpo di scena che non avvengono mai.

Era necessario da parte della regista e della sceneggiatrice trasformare l’ordinario della prima parte nello straordinario nella seconda, diversamente una storia così raccontata sembra una copia di opere precedenti e il guizzo registico, che è l’elemento che rende il lungometraggio unico, viene a mancare.

La regia interessante non è stata supportata dal fare un passo in più.

Don’t Worry Darling è comunque un film abbastanza godibile nel suo insieme, ha ritmo cadenzato e intrattiene per tutte le due ore di durata. È solo un peccato che si abbia preferito una storia abbozzata ad una logica ben spremuta, con idee poco cotte al centro.

 

 

 

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