Gus Van Sant e la “Trilogia della morte”: Analisi Completa

Gus Van Sant e la “Trilogia della morte”: Analisi Completa

La “Trilogia della morte” del regista statunitense Gus Van Sant segna il ritorno di quest’ultimo a quel particolare tipo di cinema sperimentale e indipendente che aveva accantonato dopo il successo di Will Hunting, con cui si era fatto un nome ad Hollywood.

Gerry, Elephant e Last Days. Sono questi i testi che vanno a formare il trittico di Gus Van Sant. Con particolare attenzione ad Elephant, nei paragrafi seguenti, verranno analizzati i testi sulla base delle teorie e delle metodologie presenti all’interno di altri tre fondamentali testi, letterali in questo caso: Analisi del film (F. Casetti, F. DiChio,1990), Metodologie dell’analisi del film (P. Bertetto,2006) e A cosa pensano i film (J. Aumont,1996).

Per quanto diversi dal punto di vista prettamente narrativo, i film della “Trilogia” condividono tra loro gli stessi temi reiterati, raccontati attraverso lo stile e la poetica del regista. Tenendo “Elephant” come testo di riferimento, per realizzare il video saggio, abbiamo deciso di analizzare gli altri due testi, “Gerry” e “Last Days”, attraverso la ricerca di alcune particolari tracce autoanalitiche comuni all’interno della Trilogia. La ricerca dei punti di latenza del senso non si basa dunque sull’analisi di ogni film in quanto opera a sé stante ma bensì in quanto tassello di un’opera più grande, ovvero quella composta dai tre film.

SPAZIO DIEGETICO: i percorsi dei personaggi

Sulla base di quanto detto in precedenza, in questo paragrafo proverò ad analizzare, secondo le metodologie analitiche introdotte da Bertetto, i punti di latenza che emergono in maniera preponderante nei tre testi di Gus Van Sant. A livello di spazio diegetico i tre film presentano due spazi chiusi in cui si muovono i personaggi (Elephant e Last Days) e uno spazio aperto (ovvero quello di Gerry). Nonostante questa differenza che Gerry presenta rispetto agli altri due testi, è possibile constatare come lo spazio in cui si muovono i due protagonisti sia tanto aperto da risultare di fatto un labirinto, una trappola. Proprio come la villa di Blake e la scuola di Elephant. Ciò che rimane invariato nei tre film è come Gus Van Sant riprenda i suoi personaggi. La macchina quando è ferma si limita a riprendere il campo. Ciò che entra e esce dal campo non viene quasi mai seguito. Come accade in Elephant durante la scena del campo da gioco dove i personaggi vengono ripresi in maniera oggettiva e distaccata, così accade spesso in Gerry, mentre i due ragazzi camminano nelle terre desolate, e in Last Days nella scena in cui la mdp, ferma, riprende Scott a fuoco mentre ascolta Venus in Furs e fuori fuco Asia e Nicole si muovono sullo sfondo in maniera confusa. Nei tre testi, l’atto del camminare emerge come una forte traccia auto decostruttiva. Si può benissimo dire come i personaggi, all’interno dei loro rispettivi spazi, non facciano altro che camminare in una direzione spesso confusa per lo spettatore. Quando Blake viene ripreso in campo lungo, nei boschi così come in Gerry l’immagine è offuscata da ramaglie che insistono sull’immagine, la coprono parzialmente e la rendono confusa. Nonostante i protagonisti non stiano facendo nulla di interessante ai fini della narrazione, lo spettatore nella sua mente è come se cercasse di allungare il collo per vedere in maniera più chiara ciò che Gus Van Sant decide di privarci, ma queste sono considerazioni sull’immagine che riprenderò più avanti. La mdp spesso segue i suoi protagonisti in maniera ossessiva, opprimente. Li segue, si allontana, si avvicina, si allontana di nuovo. Queste inquadrature alle volte creano un contrasto nello stile di narrazione di Gus Van Sant. Se da una parte il regista decide quasi di adottare un sguardo distaccato dalle azioni dei personaggi, come a volerli spiare, dall’altra decide di esplicitare la macchina da presa con lunghi piani sequenza in cui i soggetti vengono ripresi spesso di profilo e in primo piano, come succede ai personaggi di Elephant e Gerry. Diverso è il caso di Blake in Last Days. Quando egli viene seguito in piano sequenza, viene quasi sempre seguito di spalle, quasi come se non ci volesse venire mostrato il suo volto.

Mappa dell'elefante
Figura 1: mappa “dell’Elefante” disegnato da Gus Van Sant sulla base dei percorsi dei personaggi all’interno della scuola

I personaggi della Trilogia si muovono lungo sentieri, percorsi, corridoi, deserti che rappresentano il destino dell’uomo, ovvero la morte. Di fatto gli ambienti diegetici della narrazione non sono ambienti ostili di per sé. In Gerry, le lande desertiche rappresentano un luogo distaccato dalla realtà senza latitudine o longitudine. È proprio da ciò che scaturisce l’atmosfera mortifera.

L’IMMAGINE NEGATA: dal fuori fuoco agli impedimenti visivi nell’immagine

Pier Paolo Pasolini in Empirismo Eretico introduce la nozione di soggettiva libera indiretta, un equivalente del discorso libero indiretto in campo letterario. Essa è il manifestarsi, a livello dell’immagine, della poetica dell’autore all’interno della psicologia del personaggio. Come già ho anticipato nelle righe sovrastanti, Gus Van Sant decide molto spesso di comporre l’immagine in maniera particolare. Le sue inquadrature mostrano fino ad un certo punto ciò che accade davanti alla mdp. Oltre ai margini dell’inquadratura, che delimitano uno spazio che risulta essere spesso soffocato a causa di questi limiti, l’immagine viene coperta da elementi di carattere naturalistico, come la luce, i rami e il cielo. Emblematica la sequenza, in Last Days, dove Donovan e il detective sono in auto mentre si dirigono verso la villa di Blake (Figura 2). L’inquadratura è frontale verso il parabrezza della macchina. I due uomini sono all’interno mentre dialogano a proposito di un suicidio come in una sorta di anticipazione sul finale. Le figure dei due uomini di fatto si intravedono solamente in quanto la luce riflette sul parabrezza della macchina il cielo e gli alberi sopra di loro. Ciò si ripete anche in Elephant, all’inizio del film, quando John e il padre sono in auto e parlano di caccia e si ripete parzialmente anche in Gerry. Tutto ciò porta ad unire tre elementi cardine della Trilogia, ovvero l’elemento naturalistico (cielo e alberi) quello mortifero (introdotto dal discorso dei due uomini) e l’elemento dell’automobile e del viaggio. Gus Van Sant si serve inoltre del fuori fuoco per rendere l’immagine maggiormente confusa e poco chiara. In Elephant, quando Michelle percorre il corridoio verso la biblioteca l’unica figura che pare essere a fuoco è la sua. Tutto il resto intorno a lei e sfuocato a sottolineare una dimensione di instabilità e insicurezza interiore del personaggio.

last days
Figura 2: Una scena di Last Days

MISE EN ABYME: un quadro nel quadro

Prendiamo in esame ora la sequenza finale di Elephant. La macchina da presa sta seguendo Alex di spalle mentre girovaga nella mensa. Il ragazzo arriva davanti alla cella frigorifera, apre una porta, la mdp continua a seguirlo, ne apre una seconda e trova all’interno della cella trova Nathan e Carrie. Alex entra nella cella e gli punta addosso il fucile, Nathan e Carrie ora sono fuori inquadratura. L’unica porzione visibile viene delimitata dagli stipiti della porta, che inquadrano Alex. Da lì la mdp incomincia ad indietreggiare, riducendo sempre di più la porzione di spazio visibile fino allo stacco che porta all’immagine del cielo e determina la fine del film.

Questa sequenza finale anticipa di fatto molte delle sequenze presenti in Last Days. Spesso infatti, la mdp si limita a filmare a ridosso degli stipiti delle porte limitando ulteriormente lo spazio in cui si svolge l’azione. Ne è un esempio la scena in cui Asia, ripresa da fuori la stanza, rimette il corpo di Blake seduto dopo averlo fatto cadere accidentalmente aprendo la porta. Sembrerebbe come se Gus Van Sant volesse lasciare una sorta di privacy ai suoi personaggi. Li segue, li accompagna alla porta, li spia attraverso la porta o la finestra che sia. Proprio attraverso una composizione di finestra viene girata una scena emblematica nell’ottica di questa interpretazione. Blake è in studio, inizia a suonare, e la mdp è in cortile (Figura 3), l’inquadratura è filtrata dalle finestre. Ad un certo punto la mdp comincia a indietreggiare e allontanarsi dalla finestra, come a non voler invadere lo spazio di Blake in un momento molto privato per lui, ovvero quando suona. La stessa sequenza in cui vediamo Blake disteso per terra senza vita sembra essere stata girata in quest’ottica. La mdp non invade lo spazio del protagonista, si limita a spiarlo da fuori, attraverso una finestra. Nemmeno il giardiniere, che lo vede disteso inerme, viola la sua quiete. Anzi assiste (forse) come noi spettatori all’ascesa dello spirito di Blake.

Film Last Days
Figura 3 Una scena di Last Days

IL FUORI CAMPO: ciò che non ci è dato vedere

Se da una parte Gus Van Sant decide alle volte di ritagliare sempre di più il quadro in cui si svolge l’azione, dall’altra, quando l’inquadratura è fissa e si limita a riprendere ciò che avviene davanti all’obiettivo, senza filtrare l’immagine. Ciò fa sì che i personaggi abitino nel quadro in maniera casuale, non prestabilita. O meglio, nonostante non ci sia nulla di casuale in ciò che vediamo entrare, uscire, sussistere o insistere nel quadro, il meccanismo cinematografo, per sua natura, ci suggerisce di pensarlo.

Il regista decide spesso di dare più importanza al fuori campo. Di conseguenza lo spettatore è paradossalmente portato a provare più interesse in ciò che accade fuori campo, piuttosto che a ciò che succede in campo. Si torna alla visione negata. All’impossibilità di vedere oltre un determinato margine. Lo spettatore è invogliato a sbirciare oltre i limiti di ciò che gli è dato a vedere.

LA METAFORA DELL’ELEFANTE

Resa molto implicita in Gerry, esplicitata in Elephant e successivamente riproposta in Last Days, l’Elefante in una stanza è la metafora di un problema che parrebbe essere sotto gli occhi di tutti ma che in realtà riesce a passare sotto traccia. In Elephant, Eric e Alex non fanno sotterfugi, non si nascondono. Le armi le ordinano su internet e gli vengono recapitate la mattina dopo dal corriere espresso in persona. Ciò nonostante non vengono previste le loro azioni, nonostante le premesse ci fossero. È una condizione che vede l’alienamento dell’uomo in quanto facente parte di una comunità. Sembra come se in Elephant (ma anche in Last Days e Gerry) i personaggi vivessero nella loro personalissima palla di vetro, impossibilitati a empatizzare con il prossimo. La metafora dell’Elefante ritorna prepotentemente in Last Days, dove nessuno degli abitanti della villa si accorge dello status depressivo e autolesionista di Blake. Parlano di tour, di musica, ma nessuno cerca di aiutare Blake. È interessante riscontrare però, che ciò non è causato da una mancanza di affetto nei suoi confronti, o addirittura da un sentimento astioso, bensì le persone sembrano cieche di fronte ad un qualcosa di così palese. Esattamente come l’Elefante nella stanza.

Alla luce di quanto analizzato in questo saggio, la “Trilogia della morte” di Gus Van Sant risulta essere un’opera complessa, pregna di significati e significanti. Il regista decide di rappresentare diversi percorsi con un’univoca meta finale. All’interno di questi tre contenitori, attraverso il suo stile, decide di racchiudere in toto la sua poetica più intima. Gerry, Elephant e Last Days sono storie senza tempo e senza luogo. Opache come lo sono alle volte sono le immagini. Sono storie generiche, metaforiche, che raccontano l’uomo in quanto pedina che si muove lentamente lungo percorsi prestabiliti. La logica del destino, dove qualsiasi cosa tu faccia, essendo prestabilita, ti porterà sempre alla stessa fine. Allora tanto vale fare come i due Gerry, che si perdono volontariamente andando incontro al loro destino. In maniera serena, pacifica, consci del fatto che sia inevitabile prima o poi. Quella di Gus Van Sant appare sicuramente come una triste visione della vita. Eppure, non emerge in maniera stucchevole tutto ciò. Facendo un rapido confronto con un’altra importante trilogia del cinema degli anni duemila, quella “della depressione” di Lars von Trier, è lampante come Trier punti in maniera decisa, netta verso il messaggio che vuole far passare, e utilizza un “effetto shocking” per neutralizzare il pubblico. Gus Van Sant invece, non pigia mai la mano, mantiene sempre la stessa frequenza, non mira a enfatizzare ciò che di fatto non ha bisogno di essere enfatizzato. O forse è proprio attraverso questo contrasto che punta ad ottenere il massimo risultato di enfatizzazione dei suoi temi trattati.

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